Liminalità.

SQ, Yami

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    Yami Dødson

    ★ CHAPTER I - PITCH BLACK ★



    Era passato solo qualche giorno da quando Yami si era trasferita ad Asakusa, forse una settimana. I motivi per cui aveva deciso di cambiare casa erano, in un certo senso, abbastanza ovvi: non aveva più senso restare a vivere in una casa con una stanza per suo fratello, in una casa offertale da un datore di lavoro per cui non lavorava più, che aveva fatto una brutta fine e che era fondamentalmente una persona orribile. Probabilmente la svedese, dall'alto (o dal basso) dei suoi due omicidi, non era certamente la maggior figura morale in posizione di potersi esprimere su questo argomento, ma era anche vero che per quanto la legge potesse pensare altrimenti, non era stata lei la mano a compiere il massacro della sua stessa famiglia.
    E quindi, perchè proprio Asakusa? C'erano almeno un paio di ragioni per cui la ragazza dai capelli bianchi aveva scelto quel quartiere, non aveva semplicemente preso il primo appartamento disponibile. E queste due ragioni, come molte delle cose legate alla sua personalità, erano diametralmente opposte, quasi ambigue.
    La prima era decisamente semplice: era uno di quei quartieri che potremmo definire una "calamita per i turisti". In qualità di quartiere tradizionale, con i suoi templi, rappresentava l'immagine ideale che un gaijin possa avere del Giappone. Per questo attirava molti stranieri e sempre per questo non poteva esserci un posto migliore dove una ragazza dai capelli bianchi e fisico europeo dal passato criminale potesse nascondersi tra la folla. A Yami, come detto spesso, non piaceva dare nell'occhio. Ironico, a dire il vero, visto lo scopo di questa storia. Ma tutto a suo tempo.
    La seconda motivazione, come detto, era decisamente diversa. Semplicemente, quel posto le piaceva proprio per ciò che rappresentava: l'essenza più pura del Giappone, tanto da poter vantare la presenza del più antico tempio della città. I suoi genitori erano molto interessati alla cultura giapponese e per quello si erano trasferiti lì dalla Svezia e avevano persino acquistato una casa tradizionale. Nonostante tutto si sentiva in colpa per la loro morte, ma preferiva ricordarli con un sorriso.
    La casa, comunque, era un'abitazione indipendente. In un certo senso era simile alla sua casa precedente: una piccola abitazione circondata da un modesto giardino. Esteriormente era cinta da una sorta di piccolo recinto in legno e la breve strada lastricata che connetteva il recinto alla porta di casa era accompagnata ai lati da piccoli alberelli. Oltre la porta di entrata in legno, un piccolo scalino separava l'entrata propriamente detta dal resto della casa, come comune nelle abitazioni tradizionali.
    L'abitazione in sé era di dimensioni modeste ma decisamente vivibile. Oltre il piccolo corridoio d'entrata il soggiorno a cui si collegavano le altre stanze. Qui la parte centrale del pavimento era coperta da del tatami e a terra era appoggiato un piccolo tavolino. Aveva una tv e un'immancabile comparto stereo. Buona parte dell'elettronica, nonostante il desiderio di cambiamento, l'aveva presa direttamente dalla casa vecchia. La camera da letto, sulla sinistra, era separata dal soggiorno da una porta scorrevole. Il letto era all'occidentale, com'era abituata, e qui si trovava l'armadio alla sinistra di una finestra che irradiava la stanza di luce naturale. In quegli anni aveva speso molto tempo a cercare di rifarsi un guardaroba senza snaturare la sua persona: aveva girato tutti i negozi vintage e di usato dei migliori quartieri di Tokyo, letto numerose riviste, navigato internet per ore e ore. Dentro a quell'armadio si trovavano i risultati della sua ricerca, e in un certo senso ne andava fiera.
    A destra del soggiorno, invece, due porte: la prima, quella a sinistra, portava ai sanitari. L'altra, invece, alla modesta cucina e alla sala da pranzo. Perse le Jenny, Yami dovette imparare di nuovo una dura realtà che le pareva quasi di aver scordato nel periodo di lusso che il suo precedente lavoro le aveva garantito, ovvero la necessità di doversi preparare da mangiare. In ogni caso, questa stanza non era nulla di particolare: c'era un frigorifero, il piano cottura, una piccola televisione su una mensola in alto decisamente utile per distrarsi e tagliarsi un dito mentre si prepara la cena, un tavolo che poteva ospitare al massimo quattro commensali.
    Il bagno era normale, ma per fortuna era riuscita a trovare un'altra casa con una vasca da bagno: era il suo posto preferito per rilassarsi. Era decisamente attenta all'igiene dei sanitari, nonostante fosse molto pigra. Voleva scongiurare il più possibile l'eventualità di incontrare un'Akaname recandosi al bagno di notte, nonostante ormai fosse grande e vaccinata per quelle storie da bambini.
    Per quanto strano, è proprio nel bagno della nuova casa della svedese che iniziano i fatti di cui narreremo oggi e che coprono l'arco di vari giorni.
    Yami sospirò, osservandosi nello specchio soprastante il lavandino. Le sue mani erano impiastricciate di nero e la sua faccia aveva una smorfia difficilmente descrivibile, uno strambo miscuglio di colori sulla tavolozza che è il volto umano: un pizzico di fastidio e una nota di tristezza in un campo di nostalgia. Aveva appena finito di tingersi i capelli e quella massa nera e bagnata che ora le pendeva in fronte al volto le ricordava suo fratello molto più del necessario. D'altronde, l'unica cosa a differenziare i due gemelli erano proprio le tinte diametralmente opposte dei loro capelli. L'odio che la svedese provava per il suo gemello, carnefice dei suoi genitori e croce più che delizia di buona parte della sua vita, non necessita certamente di essere ulteriormente specificato. E allora perché tingersi i capelli di nero, seppur con una tinta provvisoria e non permanente, visto il controverso legame con suo fratello?
    Il motivo è presto detto: i capelli bianchi erano una calamita per lo sguardo dei passanti. Aveva comprato un biglietto del treno per recarsi dove era nata, dove secondo le versioni ufficiali della polizia aveva ucciso i suoi genitori. Era già una mossa rischiosa di per sé tornare in quel posto, forse sarebbe stato meglio farlo senza un cartello che urlasse "PARRICIDA" sulla testa.
    La sua casa d'infanzia, scoprì, non era più presente. Al suo posto si trovava ora un piccolo centro commerciale, a dire il vero. La ragazza dai capelli bianchi neri non sapeva come prendere questa scoperta. Da un certo punto di vista ne era sollevata, contenta che non fosse diventata un'attrazione come spesso accadeva in America alle case dove erano stati commessi crimini cruenti, dall'altro, ovviamente, non poteva che spiacerle. Tutta la sua infanzia e la sua innocenza se n'erano andati con quella casa. Decise di non entrarvi, e cercò di liberarsi da tutto quel peso con un semplice sospiro.

    ★ CHAPTER II - STAINED RED ★



    Prima di essere abbattuta, quella casa era quasi una sorta di museo. Come se non bastasse l'essere un'antica residenza di un qualche shogun, i genitori di Yami erano dei collezionisti e l'avevano riempita di reperti di arte e antropologia asiatica e medio-orientale. Una vero e proprio museo vivente.
    Quando era piccola, si ricordava, spesso suo padre le raccontava storie e tradizioni di varie popolazioni, a volte europei e a volte orientali. Uno dei concetti che la ispirava di più, ricordava, era la reincarnazione del mondo indiano e buddhista. Yami era stata cresciuta come una cristiana, col concetto di una risurrezione e vita eterna alla fine dei tempi. Questo concetto, però, non sembrava soddisfarla particolarmente: avrebbe preferito reincarnarsi più e più volte, sperimentare ogni volta una vita diversa piuttosto che vivere per sempre come sé stessa. Non era un'auto-sminuirsi, pensava semplicemente che alla lunga sarebbe stato noioso, vivere sempre allo stesso modo.
    Alcuni popoli, però, avevano una concezione ancora diversa della vita. Si trattava generalmente di quei popoli dall'organizzazione politica ed economica più semplice, che qualche classificazione ormai caduta in disuso additava come "primitivi". In parole povere, quelle che una bambina piccola avrebbe potuto capire, molte popolazioni credevano alla possibilità di mutare ontologicamente nella stessa vita. Ok, forse "ontologicamente" non rientra nel comune vocabolario infantile. Il concetto, però, è quello di poter cambiare la propria esistenza senza la necessità di morire o dover ricominciare da capo. Questo avveniva generalmente attraverso riti di trasformazione, o riti di iniziazione. Cerimonie, insomma, in cui l'individuo poteva cambiare in qualche modo, trasformarsi, diventare un'altra persona. Un concetto affascinante e che aveva sempre avuto una grande presa su di lei.
    Seppur non in tutte, in molte di queste culture il cambiamento veniva sottolineato da un vero cambiamento corporeo: mutilazioni, scarificazioni, tatuaggi. Un esempio semplice è la pratica della circoncisione, diffusa come rito di iniziazione tra gli ebrei, gli aborigeni australiani e le antiche popolazioni americane. Antiche usanze ereditate dagli dei.
    Un altro esempio può invece essere la pratica del tatuaggio presso le donne Ainu, antica popolazione giapponese, dove il completamento di tale pratica indicava l'età matura per potersi unire in matrimonio. Yami aveva sempre trovato strano il modo in cui i suoi compaesani si interfacciavano al tatuaggio. Avevano un'intera tradizione, tra irezumi e tebori, eppure avevano col tempo teso a demonizzarla. L'avevano nascosta ai contatti con gli europei per paura di essere considerati una società tribale e arretrata, eppure proprio questo aspetto artistico aveva colpito gli occidentali. Ancora oggi, dopo secoli, non avevano ancora fatto pace con la propria tradizione.
    Yami, seduta nel suo salotto, era arrivata alla seguente conclusione: per mettere il punto di fine a quel lungo periodo della sua vita e andare avanti aveva bisogno di un gesto forte, di un rito di passaggio. Aveva passato giorni a cercare il giusto tatuatore. Aveva scrollato e scrollato sui social, visto centinaia e centinaia di opere di artisti di altissimo calibro, ma uno in particolare aveva attirato il suo interesse. Horimitsu.
    L'Irezumi era un tipo di tatuaggio effettuato manualmente con canne di legno e aghi di metallo atti ad iniettare un particolare tipo di inchiostro. A differenza del tatuaggio moderno fatto a macchinetta si trattava di una pratica chiaramente più dispendiosa in termini di tempo, a volte anche più dolorosa e, ovviamente, che richiedeva una manualità specializzata. Un maestro di irezumi era chiamato Horishi e trasmetteva le sue conoscenze ad un numero ristretto di apprendisti e, a conti fatti, effettivi discepoli. Una volta ottenute le competenze, all'apprendista veniva donato un nome dal suo maestro: questo era composto dal termine hori- e un suffisso. A volte i discepoli adottavano direttamente il nome del loro maestro creando una sorta di dinastia. Era questo il caso degli Horiyoshi, ad esempio, giunti sino ad Horiyoshi III.
    Lo studio di Horimitsu era ad Ikebukuro, un'oretta di viaggio dalla casa di Yami usando i mezzi pubblici. Decise di chiamare lo studio e prenotare innanzitutto una seduta di conoscenza. Horimitsu era un professionista ma la sua lista d'attesa era tutto sommato agile, e i due programmarono un incontro per il mese dopo. Era Marzo 2021.

    ★ CHAPTER III - ACHING PURPLE ★



    Esternamente, lo studio di Horimitsu era pressoché indistinguibile: si trattava di un semplicissimo edificio ad un piano immerso nelle edere. La porta era in legno e l'entrata era agevolata da uno scalino rimovibile anch'esso in corpo ligneo. Erano circa le undici del mattino e Yami aveva ancora i capelli scuri.
    Una volta proibita la pratica del tatuaggio per far bella figura con gli europei, questo aveva iniziato a diventare simbolo di criminalità. A dire il vero, in questo caso non si trattava di un pensiero unicamente giapponese: anche in Europa il tatuaggio era stato giudicato come marchio dei malviventi, identificato proprio come un'usanza tribale. In ogni caso, in Giappone era stato identificato con le pratiche della Yakuza e tutt'oggi era proibito l'accesso agli onsen e ad altri edifici a coloro che avevano la pelle marchiata, e i colori sgargianti dei tatuaggi attiravano spesso le occhiatacce dei giapponesi. Fortunatamente Yami, per quanto nata nell'arcipelago, aveva l'aspetto puramente occidentale: era una fortuna perché per qualche motivo i suoi compaesani, o almeno i più aperti di mentalità, vedevano con malizia solo i tatuaggi sugli asiatici e invece erano estremamente interessati ai colori sulla pelle degli stranieri. E come dargli torto, in fondo.
    Ironicamente, Horimitsu si era appassionato all'arte del tatuaggio proprio grazie agli Yakuza, in particolare ai film di mafia. In questi film, a suo dire, gli "eroi tragici" della malavita giapponese avevano il corpo marchiato da peonie, e per questo buona parte dei tatuaggi presenti sul suo corpo riportavano tale fiore. In Cina, la patria delle peonie, venivano chiamate "il re dei fiori" e in Giappone indicavano onore, buona sorte e coraggio: esattamente ciò che Yami voleva rappresentare di lì in poi.
    Generalmente gli irezumi rappresentavano soggetti mitologici secondo lo stile delle ukiyo-e, le stampe artistiche del periodo Edo. La svedese però non si sentiva certamente all'altezza per essere paragonata ad eroi e dei. Delle peonie, insomma, avrebbero fatto il loro dovere.
    Lo studio di Horimitsu era molto piccolo: la scrivania alla quale teneva i colloqui era immediatamente adiacente al lettino sul quale tatuava, e i muri erano coperti di fogli disegnati con spunti di tatuaggi. Erano quelli che in ambiente occidentale si sarebbero chiamati flashes, design già preparati pronti - con qualche ritocco - per i clienti giornalieri senza particolari pretese.
    L'uomo abbozzò un'idea di fronte alla svedese. Si trattava di una sleeve a sfondo nero con delle grosse peonie di colore rosso. Come nel tipico tatuaggio tradizionale giapponese, le figure in primo piano (le peonie) erano posate su uno sfondo amorfo di vaporose onde. Yami accettò con un sorriso e scelsero il primo appuntamento per la settimana dopo. Ovviamente si trattava di un lavoro complesso e l'esecuzione a mano richiedeva ovviamente molto tempo, senza parlare della necessaria graduale guarigione della pelle. Insomma, il lavoro avrebbe richiesto mesi di lavoro ma Yami ne era cosciente.

    ★ CHAPTER IV - PURE WHITE ★



    Era maggio e il braccio sinistro di Yami era costellato da tre grosse chiazze di colore rosso vagamente circondate da del nero. Il colore dei suoi capelli era tornato al candido bianco naturale e il gentile Horimitsu, col quale aveva avuto una seduta tre giorni prima, non aveva posto domande.
    Il suo piede destro, con le unghie smaltate di nero come al sempre, ciondolava giù dal letto. Yami si svegliò alla vibrazione del suo cellulare sul comodino. Il numero era privato e, ancora assonnata, portò lo smartphone all'orecchio per rispondere. Sentendo le parole di chi stava all'altro capo della chiamata si svegliò anche dal torpore mentale, spalancando i suoi occhi azzurri.
    Era quel tizio svedese che aveva conosciuto il giorno dell'incidente alla UA, quello che le aveva parlato della morte di suo fratello Yama e di presunte persone in Svezia con le prove del fatto che non fosse stata lei ad uccidere i suoi genitori. E, a suo dire, ora aveva quelle prove in mano.
    Non sentiva quella voce da molto, sebbene lui (o loro) l'avesse aiutata per tutto quel tempo. Era riuscita a sopravvivere sinora grazie all'identità che lui le aveva donato e ai soldi che periodicamente le versava, riuscendo anche a comprare la casa proprio grazie a quel denaro. Era, insomma, una sorta di "acconto" per quando sarebbe riuscita a tornare in possesso dell'eredità dei genitori. Se si era fatto sentire di nuovo doveva essere per forza importante.
    L'uomo la informò di aver fornito anonimamente tutte le prove ad una stazione della polizia di Tokyo. Con ogni probabilità avrebbe ricevuto una chiamata per andare a testimoniare in tribunale e dare la propria visione dei fatti. Il suo cuore sussultò per un momento: per la prima volta dopo tanti anni si sentiva nuda ed impotente. Era scappata per tutta la vita e sentendo quelle parole, in un certo senso, non riusciva a non sentirsi attaccata. Strinse le coperte bianche al suo petto incapace di respirare.
    La chiamata arrivò tramite lettera, e si sarebbe dovuta presentare alla Corte Familiare di Chiyoda la settimana successiva: dato che ai tempi dell'illecito era minorenne era ancora sotto la loro giurisdizione. Con ogni probabilità, insomma, la notizia del suo processo non avrebbe fatto molto scalpore. Una volta libera da quelle accuse le sarebbe piaciuto riprendere una vita normale, magari iniziare a lavorare. Ryo aveva trovato lavoro presso una pasticceria e stava facendo del suo meglio per inserirsi nuovamente nella società, e anche a lei avrebbe fatto piacere. Forse così sarebbe anche riuscita a raggiungere un punto di svolta nel suo rapporto con Yuya.

    -


    Il giorno del processo Yami indossava una camicia di colore bianco e un completo grigio, pantaloni lunghi e giacca. Il cuore le batteva forte nel petto perché, ad essere onesti, se le cose non fossero andate come sperato sarebbe stata sola in mezzo alle forze dell'ordine. Non era nei suoi piani finire in prigione quindi in quel caso sarebbe dovuta fuggire (e forse persino usare la sua unicità) confermandosi quindi come un nemico pubblico. Sospirò fissando le porte dell'aula, per poi farsi forza ed entrare.
    La stanza era praticamente vuota: erano presenti due giudici e i suoi avvocati che, a dire il vero, lei non aveva mai visto dato che erano stati assunti dai suoi "tutori". Quello era un giorno come tanti. Il Sole splendeva sulla città, i bambini giocavano nei giardini delle scuole. Gli uccelli non avrebbero fermato il loro volo e migliaia di persone erano sedute ad una scrivania a lavorare come ogni altro giorno. Eppure per lei quello era il giorno della verità, un paio d'ore che avrebbero deciso il resto della sua vita.
    In quel momento non voleva altro che stare tra le braccia di Yuya. Le dita della sua mano sinistra tormentavano quelle della destra sotto il banco al quale era seduta, qualche metro davanti ai due giudici.
    Fortunatamente le prove fornite dai suoi "conoscenti" erano considerate valide. Non si sarebbe dovuta stupire dato che era la verità, sebbene si chiedesse di che razza di prove dovesse trattarsi dato che era tutto successo nell'intimità del loro focolare domestico. Ciononostante in quel momento, riconoscendo di essere finalmente libera da quelle catene che le stringevano i polsi da quasi dieci anni, i suoi occhi si inumidirono quasi al limite del pianto.

    ★ CHAPTER V - BRIGHT GOLD ★



    Settembre. Yami era seduta sul lettino di Horimitsu, osservando l'opera che ricopriva il suo braccio sinistro ormai completa. Sembrava quasi che la sua vita in attesa messianica fosse davvero giunta ad un punto di svolta: era libera da quella spada di Damocle che l'aveva terrorizzata per anni, libera dal suo aguzzino, l'opera sul suo braccio era finalmente completa e... ora mancava solo una cosa, ma non ci sarebbe voluto ancora molto.
    Uscita dallo studio aprì un ombrello di colore rosso sopra i suoi capelli bianchi. La temperatura non era bassissima ma pioveva e l'asfalto era pregno d'acqua. Presi i mezzi, si diresse verso Ueno. Erano circa le cinque e mezza del pomeriggio e aveva un appuntamento per vedere una casa. Si trattava di nuovo di un'abitazione indipendente su due piani. Immersa in un piccolo giardino, la sua entrata era accessibile grazie a una piccola rampa di scale. Il tetto a spiovente sormontava i due piani di mura bianche, il cui colore era interrotto spesso da numerose e grosse finestre. Ad aspettarla era un'agente immobiliare dai corti capelli biondi, che la portò a fare una visita dello stabile.
    Al piano terra, oltre ad un'entrata alla giapponese, vi era un enorme salone e un piccolo angolo cucina, oltre ad un bagno con doccia. Al piano superiore invece vi era un lungo corridoio con quattro diverse camere. L'abitazione era completamente ristrutturata pur non arredata.
    Yami accettò con una stretta di mano, e ora la casa era sua. L'aveva pagata con i soldi dell'eredità che, una volta assolta, era tornata in suo possesso. Non aveva intenzione di trasferirsi a dire il vero, il suo obbiettivo era rimanere nel suo nido ad Asakusa. Aveva comprato quella casa per Eternium, una sorta di quartier generale, un posto dove poter passare del tempo assieme e che potesse funzionare da zona franca per tutti i membri. Un posto dove progettare il loro futuro e le loro mosse. Erano passati ormai tre anni da quando aveva iniziato a distribuire le carte e ancora non era successo nulla, ma le cose sarebbero cambiate di lì a breve.
    Lasciandole le chiavi in mano, l'agente se ne andò chiudendo la porta alle sue spalle. Yami si tolse la giacca, rimanendo solo con la maglia nera. Il suo braccio sinistro, rosso e nero, era coperto da un leggero strato di pellicola. Lo tolse sorridendo, anche se fuori continuava a piovere ininterrottamente.

     
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