Help! (I Need Somebody)

SQ Jason Leroy

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    [ Narrato. | -Parlato.- | -Parlato (altri).- ]
    Lo Hamamori era un ristorante tradizionale giapponese abbastanza carino nel quartiere di Ginza. Serviva prevalentemente cibo giapponese, sebbene con il tempo fossero stati quasi costretti ad aggiungere qualche opzione più tourist-friendly nel menu. Non era parte di nessuna catena, ma di per sé era un locale piuttosto grosso con molti tavoli ed occupava molte figure professionali tra cui una figura addetta esclusivamente a lavare i piatti, nei panni della quale si trovava il nostro Jason Leroy da ormai qualche mese.
    Non sapeva bene come si era trovato a lavorare a Ginza, era capitato e basta, del resto aveva provato un po' ovunque dopo l'ultimo fallimento in quell'Izakaya. Se lo Hamamori non fosse stato più grande anche lì probabilmente sarebbe finita in maniera analoga, era palese che il lavoro di cameriere non facesse per Jason e che questi non si sforzasse minimamente per adeguarsi al ruolo. Fortunatamente, in quel nuovo locale avevano bisogno anche di una figura che non stesse a contatto con il pubblico (facendoli sfigurare), il che era un peccato poiché la presenza a Jason non mancava ed era sicuramente sprecato lì dietro, ma era un destino che si era andato a cercare da solo con il suo caratteraccio. Con il passare delle settimane, aveva acquisito abbastanza confidenza con il titolare e gli altri ragazzi della cucina (conoscenze di circostanza, in ogni caso), e spesso impiegava le mani a lavorare e la bocca a chiacchierare. Ma da un paio di settimane, si era fatto insolitamente quieto: per quanto non avesse totalmente abbandonato la sua maschera beffarda non parlava se non interpellato, e questo mise immediatamente in allarme tutti i suoi colleghi.
    -Reroy-san.- Lo richiamò una voce proveniente dalla sua sinistra, mentre questi era impegnato a scrostare un piatto con gli occhi bassi, fissi sull'oggetto. Alzò dunque lo sguardo, ed i suoi occhi rossi si specchiarono in quelli nocciola del titolare del locale, un signore giapponese sulla cinquantina, stempiato ma molto curato, completamente sbarbato. -Non c'è più nessun cliente, per stasera chiudiamo un po' prima. Puoi lasciare quegli ultimi piatti per domani, tanto vedo che avevi quasi finito.- Jason si scosse, come se si rendesse conto di avere le mani nell'acqua solo in quel momento, tanto meccanico era diventato il gesto.
    -Oh. Va bene.- Fece, semplicemente, finendo di asciugare il piatto che aveva in mano e posandolo. Adocchiò la pila rimanente e vide che effettivamente erano solo sei.
    -Vieni un momento in ufficio, ti devo dare la busta paga.- Jason annuì, si tolse i guanti ed il grembiule, dunque seguì il vecchio. Pochi minuti più tardi, reggeva una piccola busta marrone ed era pronto ad andarsene. -Uhm... Va tutto bene, Reroy-san? Sei... silenzioso, ultimamente. Cioè, lavori bene, anzi, forse anche più di prima, ma sei un po' strano.- Lo sorprese però il titolare, prima che questi se ne andasse, bloccandolo sulla soglia.
    -Oh.- Si sforzò di dire che andava tutto bene, in fondo mentire non era mai stato un grosso problema. Eppure fissando quel vecchio gli stava venendo più difficile di quanto non fosse mai stato, ebbe un minuscolo impulso di vomitargli addosso tutti i suoi pensieri e crollargli conseguentemente addosso, ma non riuscì a fare nemmeno quello. Meno male, pensò poi, sicuro che se gli fosse crollato addosso lo avrebbe spiaccicato. La scena comica creatasi nella sua mente gli dette un istante di sollievo, quel che bastava per sollevare un angolo della bocca verso l'alto e rispondere all'uomo. -Ho solo qualche pensiero per la testa, grazie per l'interessamento.- Il suo sguardo si fece più vacuo mentre fissava un punto imprecisato sulla spalla del vecchio.
    -Uhm... va bene.- Concesse questi, seppur dubbioso. -Beh, se continui a lavorare così potrei anche pensare di farti fare qualche turno in sala.- Fece, forse per incoraggiamento. Jason gli rivolse un debole sorriso e si congedò senza aggiungere altro. All'inizio detestava essere stato relegato in cucina a lavare piatti, ma ora non gli importava più.
    Non capiva cosa gli stesse succedendo, era caduto in uno stato di apatia totale, era da più di due settimane che non usciva di sera per andare a caccia, e si sentiva in colpa, come se stesse deludendo qualcuno o se stesse venendo meno a una qualche promessa fatta a sé stesso, ma non riusciva nemmeno più a trovare le motivazioni per farlo. Si fece la stessa domanda che si era fatto quella notte, dopo il combattimento con quel tizio che manipolava la polvere: la sua determinazione era così fragile? Bastava prenderle un paio di volte e automaticamente non voleva più farlo? Non era pronto a morire, per la sua causa? Eppure credeva di sì, ne era sicuro anzi, e una volta ci era anche arrivato piuttosto vicino. Quella volta, dopo essersi fermato al Nyorai per un paio di giorni, aveva ripreso regolarmente la sua attività notturna senza battere ciglio. E allora perché, perché quelle ultime due batoste continuavano a perseguitarlo? Un meccanismo di difesa inconscio di un corpo al limite? Mah.
    Sulla via del ritorno scrollò per qualche minuto Twitter, vedendo la sua home invasa dalle foto che postava suo cugino. Già, quell'impiastro ora si era messo in testa di aprire una qualche sua agenzia, e con sommo stupore di Jason la cosa sembrava anche funzionare. Chissà come sarebbe andata a finire, doveva ammettere che un po' era curioso. Un lievissimo sorriso gli si dipinse sulle labbra. Arrivato a casa, mangiò qualcosa al volo, in piedi davanti al frigorifero, si gettò sotto la doccia ed infine sotto le coperte.
    La mattina dopo, si svegliò abbastanza presto (per i suoi standard) e venti minuti più tardi era in fila ad aspettare il suo turno nella sua banca, indosso un completo beije ed una camicia rosa a quadretti su cui era annodata una cravatta nera. Come sempre, prelevò metà dello stipendio di quel mese e se lo fece mettere in una piccola busta marrone, che depositò al sicuro nel taschino interno della sua giacca. Uscì dunque dalla banca, inforcò gli occhiali da sole e si infilò in metropolitana.
    Arrivato nel quartiere di Edogawa, attese ancora un paio di fermate e poi scese. Camminò per una decina di minuti e, giunto dinanzi ad una piccola villetta a due piani incastonata fra altre due, si fermò. Sospirò, cercando di scorgere se vi era del movimento dalle finestre e, non vedendo nulla, ritenne sufficientemente sicuro agire. Si avvicinò con noncuranza alla cassetta postale, con la busta in mano, ma non appena l'angolo di carta sfiorò la piattaforma, una voce lo ammonì ed egli strinse i denti come se si fosse bruciato.
    -Jason.- Non molti giapponesi usavano il suo nome e senza suffissi. Gli unici che si fossero mai sforzati di farlo erano loro.
    I coniugi Fujiwara.
    Il ragazzo sospirò ed alzò lo sguardo verso la donna che lo aveva appellato dalla soglia della porta, ora leggermente schiusa. Fu una delle poche volte in cui non si sforzò di sfoggiare uno dei suoi sorrisetti beffardi o una qualche battutaccia a mo' di saluto. In realtà, nemmeno salutò nel vero senso della parola. Puntò semplicemente i suoi occhi rossi schermati dagli occhiali sulla signora Fujiwara ed attese. Il cuore gli batteva all'impazzata e il respiro gli si era fatto pesante, ma si sforzò di rimanere composto in quegli interminabili istanti di silenzio.
    -P-perché non entri un momento?- Lo invitò. Seguì una seconda, lunghissima pausa. Il ragazzo si sforzò di ritrovare la lingua e salutò con un cenno della mano la donna, incamminandosi lontano dalla casa.
    -Meglio di no, sono un po' occupato.- Mentì, spudoratamente. Fra le altre cose, era anche il suo giorno di riposo quello, ma anche se avesse lavorato sarebbe stato libero fino ad ora di cena o poco prima.
    -Jason!- Lo fermò la donna, con un tono così spezzato che al ragazzo salì un nodo in gola e si arrestò sul posto, senza osare nemmeno respirare. -P-per favore. Dobbiamo parlare. Sei sparito.- Il ragazzo scrollò le spalle, improvvisamente fattosi cupo.
    -Non credevo mi voleste fra i piedi.- La donna sospirò.
    -Oh, Jason...-
    -Jason, figliolo.- Lo intercettò una seconda voce, maschile, proveniente dalla soglia. -Non essere sciocco, entra in casa.- Era un tono un po' severo, austero quasi, ma a modo suo rassicurante. Jason, che già doveva lottare contro sé stesso per non cedere alla signora da sola, non riuscì a fare più nulla per opporsi. Si tolse gli occhiali da sole e li infilò nel taschino esterno, dunque seguì i coniugi Fujiwara all'interno della loro villetta. Sfilò le scarpe nere lucide e proseguì in calzini sino alla cucina e sala da pranzo, dove lo fecero accomodare. La loro casa, pur mantenendo un deciso gusto estetico orientale, adottava un mobilio più moderno ed occidentale, senza kotatsu o cuscinetti che facevano venire male al sedere a Jason (o alle ginocchia, a seconda di come si costringeva a "sedersi"): probabilmente, passati ormai i sessant'anni, avevano scelto di optare per una soluzione che non li costringesse a sedersi per terra. Del caffé freddo venne versato su tre bicchieri posati sul tavolo di legno coperto da una colorata tovaglietta in pastica blu, e Jason fissò quello che doveva essere il proprio senza aprir bocca, con le braccia incrociate. Calò un lungo silenzio, interrotto solo dall'occasionale, nervoso sorseggiare caffé da parte del signor Fujiwara. Shoji Fujiwara era un uomo affascinante, anche se l'età gli aveva regalato una discreta gobba e qualche chilo di troppo, e le guance iniziavano a cadergli un po'. Per il resto, era la copia spiccicata di suo figlio Ken.
    -Ho saputo che hai mollato la compagnia teatrale.- Esordì la voce stanca e melodiosa della madre di Ken, Kaname Fujiwara. Per lei gli anni sembravano passare a rallentatore, era ancora splendida come la si poteva vedere nelle sue foto di gioventù sparse in giro per la casa, unica differenza qualche sfumatura di grigio fra i capelli e qualche ruga, nulla che non ci si potrebbe aspettare da un quarant'enne, sebbene lei ne avesse quasi venti in più.
    -Sì. Subito dopo... beh, sì, semplicemente non ho più ripreso.- Il che equivaleva a dire che aveva mollato, ma dirlo così in qualche modo gli suonava più clemente. Non aggiunse altro, sebbene probabilmente la domanda fosse un'implicita richiesta di informazioni su cosa stesse facendo ora. Seguì quindi una seconda pausa di silenzio, rotta questa volta dal signor Fujiwara, che si schiarì la voce prima di parlare.
    -Jason, dobbiamo parlare.- Esordì, in evidente difficoltà. -Quei soldi che ci porti ogni mese. Cosa ti passa per la testa?- Jason scrollò le spalle, cercando a sua volta le parole.
    -La casa era per metà di Ken, quindi immagino ora sia per metà vostra.- Iniziò, con finta aria noncurante, mentre il cuore gli si strappava. -Non ho altri posti dove andare né mi va di cercarne, quindi ve la sto pagando poco per volta.- Concluse, con una seconda alzata di spalle nervosa. L'uomo sospirò e si scambiò uno sguardo con la moglie, che annuì.
    -Non abbiamo intenzione di farti pagare per stare lì. Perché non ce ne hai mai parlato? Te l'avremmo detto.- Lo rimproverò il padre di Ken. C'era qualcosa di strano nell'essere rimproverato da una figura paterna, non che a Jason non fosse mai capitato viste le liti con suo padre, ma c'era qualcosa di strano nell'essere rimproverato e sapere, in cuor proprio, di essere nel torto. Dall'alto dei suoi quasi due metri di altezza, si sentì piccino piccino, come se fosse tornato un bambino di cinque anni rimproverato perché aveva attraversato la strada senza guardare. il nodo alla gola faceva su e giù, spietato, tanto che Jason temette che il suo pomo d'adamo si riversasse sul tavolo.
    -Credevo... non...- Iniziò, con voce rotta, per poi tapparsi la bocca, ritrovare contegno ed accigliarsi. -Credevo di farvi un favore a sparire. Del resto anche voi sospettate di me, come la polizia.- Entrambi i coniugi sospirarono sonoramente, Shoji scosse il capo e si prese il viso fra le mani, mentre Kaname prendeva parola. La sua voce era tremolante come quella di Jason, ed anzi, anche il resto del suo corpo sembrava tremare, e Jason si sentì in colpa senza nemmeno sapere per cosa.
    -Questo non lo abbiamo mai pensato, Jason.-
    -Certo, come no.- Biascicò questi, con gli occhi lucidi ma un tono tanto velenoso da stupirsi di sé stesso. Tamburellò con il piede a terra per scaricare la tensione, mentre si stringeva ancora nelle braccia.
    -Jason, no, te lo posso giurare su quello che vuoi. Sul mio onore, sui miei antenati. Te lo giuro su Ken.- Sbottò il padre, agitato, terminando con gli occhi lucidi e combattendo per rimanere composto. Jason si sentì lo stomaco stringere e diventare delle dimensioni di una nocciola, glielo aveva giurato su Ken. Non poteva non credergli, loro erano come lui: per loro, Ken era tutto, avevano un'adorazione infinita per il loro ragazzo.
    -Ma io... allora...- Fece una pausa. -Perché non vi siete fatti sentire?- Chiese, abbassando il capo e, finalmente, sciogliendo le braccia e lasciandole posate sulle coscie.
    -Abbiamo sbagliato.- Tagliò corto Shoji, prima che Jason potesse intuire diversamente dal suo silenzio. -Non prendere quello che sto per dirti come una giustificazione, abbiamo sbagliato e lo so. Lo sappiamo.- Sospirò, poi, non sapendo bene come iniziare, ma sua moglie gli venne incontro.
    -Non sapevamo cosa fare. Era tutto così... assurdo, e a malapena ci rendevamo conto di cosa stava succedendo a noi.- Si fermò, sospirando. -Sapevamo della tua situazione familiare, Ken ce ne aveva parlato, ma abbiamo fatto finta di nulla. Ci siamo convinti che in fondo non era una nostra responsabilità.- Jason boccheggiò. Era strano, non era una cosa bella da dire, ma in qualche modo riuscì a capirla. Era difficile preoccuparsi dei problemi degli altri, quando si navigava in un mare di guai.
    -Beh.- Esordì il ragazzo, scrollando le spalle. -Non lo era.- Sminuì, seppure la sua maschera stesse vacillando. Fu Shoji questa volta a prendere la parola, scattando verso Jason e prendendogli una mano fra le sue, grandi e nodose.
    -Ma lo era. Lo è. Tu sei...- Inspirò avidamente. -Sei di famiglia.- Concluse, con somma difficoltà. Jason tentennò, colpito nel vivo. Aveva detto quello che pensava? Se lo era immaginato? Una famiglia? Fece del suo meglio per trattenere le lacrime, ma anche stringendo le labbra e strizzando gli occhi il più possibile, dei silenziosi singhiozzi iniziarono a scuoterlo. Kaname piombò su di lui come un falco e lo abbracciò, posando la testa del ragazzo sul proprio seno e chinando il capo.
    -Non dovevamo abbandonarti. Abbiamo pensato a te ogni giorno.- Continuò l'uomo, mentre lasciava andare la mano del ragazzo. -Per favore, non scappare da noi.-
    -Mi dispiace.- Fu tutto ciò che Jason riuscì a balbettare in risposta. Non era più solo, riusciva a pensare solo a questo. Per la prima volta dopo molto tempo, sentì di non essere indesiderato, ed in qualche modo questo gli aprì gli occhi su molte altre cose. Il viso di Castiel fu il primo a piombargli in mente: per tutto quel tempo, nonostante si fosse comportato da stronzo, suo cugino aveva fatto di tutto per stargli vicino a modo suo. Era stato lui a preparare il terreno, lui il primo a dare una seppur vaga sensazione di appartenenza a Jason. Forse se non ci fosse stato lui, quell'incontro con i coniugi Fujiwara non sarebbe mai esistito o sarebbe stato un disastro, sarebbe stato troppo diffidente. Eppure pian piano si era ritrovato ad interessarsi delle sorti del cugino, e questo gli aveva inconsciamente dato un motivo per non cercare il suicidio nelle sue sortite notturne. Era diventato più cauto e in un paio di occasioni aveva anche saputo quando ritirarsi, e lì per lì non avrebbe nemmeno saputo spiegarsi il perché, ma ora lo capiva. Giorno dopo giorno, si era ritrovato a vivere di nuovo per qualcosa.
    Jason aveva perso completamente la concezione del tempo, si ritrovò a pranzare con i coniugi Fujiwara e pian piano riacquisì con loro un po' di confidenza. Iniziò a pensare di dover tornare a casa, sebbene i due non gli facessero nessun tipo di pressione, ma l'idea di stare da solo lo nauseava. Quindi mandò un messaggio a suo cugino, chiedendogli solamente "Puoi venirmi a prendere? seguito da un indirizzo: un po' criptico, ma al momento non riusciva ad articolare di meglio. Scrisse e cancellò la parola "grazie" per un paio di volte, ma alla fine la omise. Quando gli arrivò la conferma di suo cugino di essere nei paraggi, iniziò a congedarsi dai Fujiwara, un po' a malincuore.
    -Prima che tu vada, prendi.- Shoji gli mise in mano un marsupio verde. Jason non capiva, era un bizzarro regalo e- oh, ma era pieno. Aprì la cerniera e riconobbe le varie buste riciclate dove ogni mese metteva i soldi che credeva di dovere ai Fujiwara, lasciandogliele nella cassetta postale. -Non li abbiamo toccati. Non sapevamo come restituirteli perché sapevamo li avresti rifiutati, ma... ecco qui, insomma. Prendili, sono tuoi.- Insistette, prima che Jason potesse protestare. Questi sorrise debolmente, dunque, e si caricò il borsello in spalla.
    Uscendo dalla confortevole casetta vide, oltre il cancello in fondo al viale, una familiare, splendida chioma verde. La sua chioma verde.
    -Grazie.- Gli mormorò, con un debole sorriso, una volta arrivatogli a pochi passi. -Andiamo?-
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    Bel codice. :zizi:

    Jason: +25 exp

    Chiudo. :**:
     
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