It's Yesterday Once More

Castiel Leroy

Erano le sette e trenta di lunedì sera e Castiel Leroy aveva appena deciso che avrebbe fatto gli straordinari.
Era così stanco che avrebbe potuto addormentarsi in piedi, ma c'era così tanto lavoro da fare, così tante scadenze alle porte, che avrebbe potuto rinchiudersi dentro il suo ufficio, uscire dopo una settimana e non aver ancora finito.

Concentrarsi sul lavoro era una buona cosa, continuava a ripetersi il giovane direttore della Mankai Company, mentre picchiettava le dita sulla tastiera del suo portatile nero, andando a formare parole indefinite che la maggior parte delle volte cancellava subito dopo. Gli impediva di pensare a tutti gli altri cavilli che non andavano nel resto della sua esistenza. Non che fossero poi tanti a dire il vero, ma erano tutti cavilli piuttosto importanti, a cui non era capace d'impedirsi di pensare non appena aveva un attimo di vuoto. Tipo la salute mentale di suo cugino, che era tornato ad abitare da solo. Castiel sapeva di essersi abituato male, ma - ora - tornare e trovare la casa vuota gli faceva uno strano effetto.

Ma come spesso si dice: chi è causa del suo mal pianga sé stesso. Non c'erano abbastanza parole per descrivere quanto la famiglia fosse importante per lui; rapporti che aveva coltivato fin dalla più tenera infanzia e che ancora oggi continuava a tenere come anelli ben saldi nella catena di eventi che si ostinavano a sconvolgergli la vita. A volte dubitava che Jason sapesse quanto gli voleva bene. Lo considerava al pari di un fratello e per i suoi fratelli, i suoi genitori e sua sorella, Castiel non avrebbe esitato a tagliarsi un braccio, fosse stato necessario. Erano legami speciali, più speciali di ogni amicizia e anche di ogni stramaledetto uomo sarebbe mai entrato nel suo cuore. Erano i legami che lo avevano portato ad interrompere la sua strada da idol, a cui aveva sempre tenuto più della sua stessa esistenza, tanto per fare un paragone.

C'erano, quindi, un bel po' di cose che non riusciva a mandar giù di quella situazione. Era complesso capire cosa aveva sbagliato, ma soprattutto capire che aveva sbagliato. Aveva considerato tutte le premesse di quel disastro talmente superflue che se ne era dimenticato nel giro di appena una settimana, salvo poi ritrovarsi trascinato capo e collo in mezzo ad un litigio in cui credeva di non c'entrare nulla. Aveva sbagliato a non dire di Desmond a Jason? Forse. Ma lui nemmeno sapeva che Desmond sapeva di suo cugino, insomma, non è che se lui andava a zonzo sui tetti di notte doveva farlo per forza anche l'altro, no? Erano due entità separate e ognuna capace di pensare con la propria testa. Che ne sapeva. Senza contare che Desmond non gli aveva neanche voluto dire il suo nome da vigilantes quando si erano incontrati e Castiel era venuto a sapere che fosse quell'Ichor di cui aveva sentito parlare alla televisione solamente quando glielo aveva detto Jason. Avrebbe potuto ipotizzarlo? Certo, ma c'erano più di millecinquecento volontari e dipendenti all'ospedale di 30minutes. Non gli era neanche venuto in mente. E Desmond? Se lo sapeva, dopo aver scoperto anche di lui, perché non aveva fatto un passo avanti? Dio, era passato quasi un anno! Sembrava tutto così stupido!

Sunto della storia: Jason aveva impacchettato le sue cose ed era tornato a Shinjuku. Comprensibile: si era sentito tradito anche da lui, oltre che da un suo amico. Nuovamente comprensibile: anche Castiel si sentiva tradito dalla sua stessa intelligenza.
Oh, ma si sarebbe risolto tutto, ne era certo. Forse per una volta era fondamentale che evitasse di metterci il naso. E che gli adulti imparassero a vivere come tali. Lui stesso incluso. Sì, si sarebbe risolto tutto, si ripeté. Sbadigliò e continuò a scrivere.

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A mezzanotte meno venti non gli rimase che accettare l'amara verità: si era addormentato sulla scrivania.
Seccato e con l'asprezza di chi è stato sconfitto dalla vita in bocca, si alzò dalla sua sedia e chiuse il portatile con la delicatezza di uno scaricatore di porto. Non lo mise nemmeno in borsa, ben conscio che da lì alla mattina successiva avrebbe fatto ben poco per smaltire l'infinita lista di e-mail che ancora attendevano nella sua casella di posta elettronica. Si specchiò nella vetrata di fondo dell'ufficio, notò che aveva un aspetto pessimo, ma decise di fare il galantuomo con il suo riflesso e se ne infischiò. Tanto ora lo doveva portare da un'altra parte dove nessuno avrebbe dovuto vederlo.

Scese in strada solamente dopo altri dieci minuti, tempo perso ad intrecciarsi i capelli in un'elaborata treccia che sapeva gli avrebbe fatto comodo. La porta si chiuse in automatico alle sue spalle e, inserita l'allarme, Castiel attraversò il portico e il lastricato che lo condussero da essi alla strada e dalla strada al marciapiede, di fronte alle strisce pedonali. A quell'ora non c'erano macchine, ma si guardò lo stesso da sinistra verso destra un paio di volte: non si poteva mai sapere. Bene, era tempo di attraversare la strada, fare un centinaio di metri, raggiungere il teatro di vicino all'agenzia e indossare il costume di Seraphin–

"Castiel Leroy."

Castiel Leroy si sentì chiamare dall'alto. Per un momento pensò di essere tanto di fuori da sognarsi le voci, ma sollevando gli occhi ambrati una smilza figura appollaiata sopra il lampione, proprio di fianco all'attraversamento pedonale, gli oscurò la visuale della luna.

"Noi due dobbiamo parlare."

Il cuore gli sussultò nel petto. Gin? Era Gin? Per caso era venuto a cercarlo? In effetti dopo avergli mandato quel messaggio non gli aveva più risposto, preferendo che il ragazzo tirasse le sue conclusioni da solo. Si era aspettato di vederselo comparire dietro un cespuglio come aveva fatto Midori a suo tempo, ma non era successo. E non sapeva se essere sollevato o deluso. Era un bene che le sue identità rimanessero scisse com'erano, ma credeva che - vista l'indole che aveva mostrato - un po' di curiosità gli fosse rimasta. Forse ci voleva troppo coraggio per fare una cosa del genere. Ma non era Gin, né l'unica altra persona oltre lui da cui sarebbe stato felice di sentirsi chiamare. Nessuna coda di capelli corvini svolazzava al vento e nessuna voce meccanica parlava da dietro un casco bianco.

Lo sconosciuto scese dal suo trespolo luminoso.
Castiel lo guardò.
E, ovviamente, non lo riconobbe.
Era passato troppo tempo, era buio, Masao era in controluce e il suo viso non si vedeva un granché bene.
Il direttore della Mankai Company stirò le labbra in una smorfia ostile. Gli vennero in mente almeno una dozzina di ramificazioni per il termine di quella vicenda, e nessuna finiva bene.
«Non so chi tu sia e non è un buon momento, ma se hai cattive intenzioni chiamo la polizia.»
Il suo primo istinto fu guardargli le mani. Non sembrava armato.

se ogni scelta crea ciò che siamo,
che faremo della mela attaccata al ramo?

Castiel Leroy

La Mankai Company era come una seconda casa per Castiel.
A volte passava più ore lì dentro che nel proprio appartamento. Era inevitabile che un'ostilità di fondo si fosse appiccicata come una caramella gommosa sulle parole dell'idol, persino un briciolo più cruda di come ci avesse pensato: a nessuno avrebbe fatto piacere trovare dei malintenzionati vicino a casa propria.
Già con le dita della mano destra a sfiorare il cellulare nella tasca dei pantaloni bianchi, pronto a premere il numero di emergenza nel caso ce ne fosse stato bisogno, la risata che spezzò il silenzio lo spiazzò talmente tanto che tutti i campanelli d'allarme rimasti a tenere il suo corpo sull'attenti si spensero di botto, lasciando con una tabula rasa in testa tale da far invidia ai migliori filosofi.

"Bravissimo! Vedi?
È così che dovevi fare: fingere di non conoscermi!"

Non era facile impressionare Castiel Leroy. La sua vita era fatta di tante fugaci presenze, le quali - per lo più - passavano una volta e poi chi le rivedeva era fortunato. Masao, in un certo senso, ci riuscì, perché se c'era una persona che non si aspettava di vedere quella era di certo il salaryman in giacca e cravatta di quasi due anni addietro e l'espressione incredula che gli si dipinse in volto fu chiaro specchio dei suoi pensieri.
Ma se la conversazione cominciò male, andò a finire pure peggio.
Castiel sembrò più confuso che altro.
Cosa
cosa stava
cosa stava succedendo.
La sua mente assopita cominciò a collegare i vari puntini sotto la luce smorta del lampione. Un'auto in corsa sfrecciò al loro fianco, mentre Masao gli riversava addosso le sue frustrazioni e il suo odio, illuminandone i lineamenti nervosi e toccati dall'ira, e lui percepì un graduale e irrefrenabile senso di disgusto montargli in petto. Quel tipo di disgusto di quando mangi qualcosa di così dolce che finisce per diventare amaro e ucciderti il palato.
Il suo viso si ghiacciò. Purtroppo aveva imparato a convivere con i cosiddetti hate-comments quando aveva sedici anni e adesso si avviava sulla strada dei ventisette, per quanto le cose potessero scalfirlo, sul suo volto non sarebbe mai apparso il minimo segno di odio corrisposto. Ma poi in effetti, chi era esattamente quella persona che aveva davanti per potersi permettere di dirgli quelle cose? Che influenza aveva sulla sua vita? Ovviamente si ricordava di lui e gli era grato per averlo salvato, ma non aveva così tanta confidenza con Masao Suzuki.
Si stupì della confidenza che Masao Suzuki pareva avere con lui.
«Non è per quello che me lo hai dato, quel biglietto?» chiese, dapprima inarcando un sopracciglio, poi lasciandosi andare ad un sospiro affranto, un braccio puntato sul fianco. «Così che delle persone fidate potessero aiutarmi in modo "informale"?»
Convenevoli: saltati. Che tristezza.
Ma Castiel non aveva intenzione di fare da punching ball per un ragazzino che non sapeva gestire la rabbia. Metà delle accuse che gli erano state rivolte gli erano del tutto oscure. In realtà lui non aveva lasciato a Jason proprio nient... oh.
Oh. Ohhhh. Ma dai.
Quindi era per quello che Jason si era arrabbiato anche con lui?
In effetti poteva essere, ma le avventure di quel bigliettino erano state più contorte della ghianda dell'era glaciale, era complicato stabilire che fine avesse fatto.
Al di là di quello però - a cui aveva pensato più tardi - non aveva fatto altro. «Puoi restituirmi quella giacca se non la vuoi. Inoltre spero di non deluderti, ma a malapena so chi siete, non ho ficcato il naso da nessuna parte.» spiegò, lapidario.
Chiaramente gli spiaceva che il suo "regalo" non fosse stato apprezzato. Per Castiel non era stata nemmeno solo una questione di voler "saldare i conti", ma pura e semplice gentilezza perché aveva sciupato un capo d'abbigliamento che andava aggiustato o ricomprato, così come aveva fatto con il cappotto di Gunter. Masao era stato un pensiero abbastanza fluttuante nella sua frenetica mente occupata.
Desmond aveva fatto il bravo soldato, quando si erano incontrati. Lo aveva aiutato, un breve allenamento, ma non gli aveva svelato niente sul gruppo di cui faceva parte, che per lui era composto unicamente da Masao e Desmond. Non sapeva il loro nome, i loro alias, quanti fossero, dove si riunissero, né qualsiasi altra sciocchezza potesse venir lui in mente. Non sapeva nemmeno come suo cugino conoscesse Masao. Ed era troppo stanco per pensarci. Supponeva che fosse una specie di proprietà transitiva. Masao conosceva Desmond, Desmond conosceva Jason, quindi Masao conosceva Jason.
Scosse la testa.
«Non so come tu conosca mio cugino e nemmeno mi interessa, ma lui e il tuo collega hanno delle cose da risolvere per conto loro. Ti consiglio di rimanere e lasciarmi fuori da questa storia. Se non vi ho chiesto altro, evidentemente è perché non ne ho avuto bisogno.»
E per inciso, ci aveva parlato con la polizia. Ren Okada era in pensione, certo, ma era pur sempre un poliziotto.
Quello che era venuto fuori non era piaciuto a nessuno, per questo Castiel aveva cercato di avvicinarsi ai contatti che il vigilante bianco gli aveva suggerito. Tutto quello aveva smesso di essere un affare di Masao da quando era diventato un affare suo. Castiel non aveva nessuna intenzione di dirgli cosa avesse scoperto sul pazzo omicida che lo aveva aggredito. Era pericoloso, e non voleva coinvolgere nessun'altro che non fosse sé stesso.
«Sto facendo la mia parte. Il come non ti riguarda. Se non sai niente di me, Masao Suzuki, il minimo che tu possa fare è stare zitto.» concluse, con un cenno cortese del capo. «Arrivederci.»
Senza perdere altro tempo si sporse a controllare se per la strada stessero passando altre auto - prima a sinistra e poi a destra - e, constatato che così non fosse, si avviò sulle strisce pedonali.

se ogni scelta crea ciò che siamo,
che faremo della mela attaccata al ramo?

Castiel Leroy

Nemmeno Castiel sapeva esattamente cosa si era aspettato da quell'incontro. Forse non si aspettava semplicemente di farlo: non in quel modo, non così. Quel che era certo è che lo aveva sognato abbastanza a lungo da rischiare di farselo venire a noia. Ma era naturale, insomma: nascosto sotto strati di perbenismo e perfezione, l'idol aveva lo stesso animo romantico e sentimentale di tutti gli altri esseri umani cresciuti a pane, telefilm e fanfiction. Chiunque avrebbe sognato di ringraziare a modo una persona da cui era stato salvato, e non in modo metaforico. Lui era in prima fila quando si parlava di ricevere parole di gratitudine, come la stragrande maggioranza dei cantanti, attori o personalità in vista nel mondo dello show-business, e la capiva l'importanza di rivolgere un sorriso, ricevere un abbraccio o una stretta di mano da una persona che aveva avuto un certo impatto sulla propria vita anche se non la si conosceva direttamente. Si era sentito dire tante volte "le tue canzoni mi hanno salvato la vita" o frasi simili, per questo aveva sempre fatto del proprio meglio per ricordarsi di ogni singola persona che gli passava davanti, perché lo capiva.
Eppure, c'erano modi e modi di ringraziare qualcuno. Castiel, a modo suo, credeva di averlo fatto. Con la giacca, con il bigliettino. Non era scienza futuristica. Aveva rispettato i patti, o almeno così credeva. La situazione era stata chiara sin dall'inizio: sconosciuti erano e sconosciuti sarebbero rimasti, se lo erano detto alla clinica, ma non vedeva cosa gli impediva comunque di cercare di far sapere - in qualche modo - al suo salvatore che il gesto era stato apprezzato. Se in quel momento era lì in piedi a parlare, letteralmente lo doveva a lui. Spedire la giacca o chiedere un contatto non erano mai stati dei gesti pomposi o che lo volevano vedere un disperato alla ricerca di attenzione, erano davvero stati solo gesti di... gratitudine. E pensando di aver fatto una buona azione - dopo l'allenamento con Desmond - aveva a grandi linee smesso di pensarci, tipo un anno fa.
Va bene, aveva recepito il messaggio: gesto non apprezzato. Anzi, apparentemente non era stato apprezzato proprio un bel niente. Poteva convivere con la cosa, a patto che finisse lì. Di certo non si sarebbe messo a fare le moine e gli occhietti dolci ad uno che lo aveva appena insultato e chiamato vigilante di merda solo perché lo aveva salvato. Era deluso e con l'amaro in bocca. Che diavolo, aveva forse "punching ball" scritto in faccia?

Fece finta di non sentire le lamentele altrui: non ne voleva sapere niente. Né di Desmond, né di suo cugino, né di gatti con lo stesso nome della loro conoscenza in comune.
Per l'amor del cielo, gli era persino passata la voglia di calarsi nei panni di Seraphine, meglio se se ne andava a casa. Era già con i piedi sulle strisce pedonali quando sentì tirare. Di riflesso la sua mano si strinse appena attorno alla tracolla della propria borsa, ma fu preso troppo alla sprovvista e quella gli sfuggì dalle dita.

«Ehi! La mia...» "...borsa?"
Fece, voltandosi di scatto, ma la frase gli morì in gola. Un fulmine biondo ossigenato con la sua borsa gli sfrecciò sotto lo sguardo e Castiel fu costretto a sgranare gli occhi: stava... stava usando un quirk? In mezzo alla città?
Interdetto, rimase a fissarlo imbambolato per qualche istante di troppo, ancora a metà fra il marciapiede e la strada. Il suo primo istinto fu quello di lanciarsi all'inseguimento e corrergli dietro, ma gli bastò fare un passo per capire che non lo avrebbe raggiunto nemmeno volando: e non era un iperbole, era... troppo veloce!
Non poteva star succedendo davvero.
Per il signore e tutti i santi immacolati.
E invece stava proprio succedendo. A lui.
Poteva... avrebbe potuto chiamare la polizia. Denunciare il furto della borsa e... e? E niente, nella tracolla c'era il suo portatile con il lavoro di settimane. Ed una denuncia non glielo avrebbe fatto magicamente recuperare. Inoltre non era quello il problema, vero? Masao aveva solo bisogno di qualcuno con cui prendersela e lui era capitato a fagiolo, sì?
Si sentì prudere le mani.

«Ma non prendiamoci in giro.» soffiò tra i denti, stizzito.
Già. Purtroppo anche Castiel aveva la facoltà di perdere la sua capacità di ragionare lucidamente se sottoposto a situazioni di stress. Ed era già stressato di suo, non aveva bisogno di nessun altra mina vagante sul suo cammino. Si agguantò il colletto della camicia, la sbottonò e la tolse, legandosela attorno alla vita, più nervoso che mai. Avrebbe dovuto trovare una soluzione per quegli imprevisti, non poteva stracciare una camicia firmata un giorno sì e l'altro pure. Di norma il costume di Seraphine andava benissimo, era costruito apposta, ma non lo aveva sempre a portata di mano, maledizione! Il brivido improvviso di freddo che lo colse svanì immediatamente, insieme alla comparsa di due grandi ali bianche in corrispondenza delle scapole.
Masao aveva già messo un bel po' di distanza fra loro, ma Castiel si lanciò in volo dietro di lui senza pensarci due volte, a qualche metro dal terreno per scansare gli ostacoli. Era una cosa stupidamente rischiosa! Non aveva niente per coprirsi il volto, doveva fermarlo prima che qualcuno li vedesse, erano in pieno centro di Shibuya, e solo perché era tardi e quella era zona degli uffici e non della movida, non significava che poteva andarsene a zonzo così senza problemi. Cercò di acconciare la loro distanza nel raggio del possibile, ma il biondo continuava a staccarlo ancora di almeno quattro o cinque metri: che razza di quirk aveva?
Castiel decise che ne aveva abbastanza: la violenza non era mai la risposta, ma molto spesso era la domanda, e la risposta era sì.

Un'obliqua lama d'aria a forma di mezzaluna prese corpo dalle sue ali, Castiel la direzionò verso Masao senza nemmeno preoccuparsi se potesse fargli male o no. E sì, se lo avesse preso in pieno, bene non avrebbe fatto, ma i problemi erano due: il primo, Castiel tutt'ora non era pienamente consapevole delle proprie abilità, complice non avere tanta esperienza negli scontri; il secondo, non era esattamente gentile quando ci si metteva. Era solo che nessuno lo faceva mai arrabbiare, quindi sembrava un cioccolatino. Ma era un cioccolatino pieno di esplosivo.
E non avrebbe avuto nessuna pietà.

se ogni scelta crea ciò che siamo,
che faremo della mela attaccata al ramo?

Castiel Leroy

Forse non c'era un modo preciso per descrivere come dovessero andare le cose; sicuramente c'era un modo per descrivere come non dovessero andare (così), e una dozzina di modi per dire come sarebbero potute andare se avessero fatto un cervello in due.
Il fatto era che, semplicemente, mettersi ad inseguire Beep Beep come Willy il Coyote non aveva fatto parte dei piani di Castiel.

Delle parole finirono per perdersi nel vento; l'ex-idol non ci fece molto caso, un po' perché lo sapeva da solo di avere un quirk che molti avrebbero invidiato, un po' perché era concentrato su altro e finì per credere che quella di Masao fosse una presa in giro.
Che lo fosse o meno non era importante, la preoccupazione per il suo portatile sbatacchiato qua e là raggiunse le stelle quando lo vide quasi schiantarsi contro il muro di un vicoletto in cui si era infilato. Per circa una frazione di secondo credette di averla vinta - se si escludevano casi più unici che rari e quirk di gelatina - chi si infilava in un vicolo contro di lui aveva ben poco scampo; Masao, tuttavia, lo sorprese ancora: non solo non si spiaccicò contro il muro come un omurice scivolata giù dal piatto di un bambino, ma improvvisò una manovra alla Prince of Persia usando la parete come appoggio per saltare, compiere un'assurda parabola in aria e atterrare su un tetto poco più in là con una capriola, il tutto mentre annunciava di "saper volare" felice come una pasqua.

Insomma, lo stava definitivamente prendendo in giro.

Un diavolo per capello (altro che angelo), anche Castiel virò verso l'alto, continuando a tallonare il biondo, ma si accorse solo in un secondo momento, quando toccò il suolo, il tetto, a sua volta, che Masao non era propriamente atterrato con un'artistica capriola, ma era piuttosto inciampato perché si era - probabilmente - fatto male e intuì che doveva averlo colpito di striscio poco dinanzi.

Di nuovo con i piedi per terra, il Direttore della Mankai Company rimase a guardarlo per una manciata di secondi nel modo meno elegante e decoroso possibile: le piume gonfie per il nervoso, un cipiglio d'irritazione sul viso e i capelli scombinati per tutto quel vento di fine estate. Gli venne in mente quando per terra c'era stato lui e ciò lo rese ancora più suscettibile.
"Non farti intenerire" - si disse - "Dieci secondi fa te le ha dette di tutti i colori".
Onestamente, avrebbe solo dovuto tirargli una pertica sulla testa, riprendersi la borsa e andarsene. Così imparava la lezione. Cypher sarebbe stato fiero di lui. Si lanciò una rapida occhiata intorno e decise di avvicinarsi a passo svelto.
Non farti intenerire.
E invece lo fece lo stesso.
«Si può sapere qual è il tuo problema?!» sbottò, richiudendosi appena le ali sul dorso. Non pensò alle implicazioni etiche della faccenda, perché se ci avesse pensato si sarebbe giocato buona parte della sua salute mentale. Non stava usando il quirk come nulla fosse, non lo stava usando senza essere mascherato e non lo aveva appena usato per cercare di accoppare una persona.
«Che vuoi da me?!» continuò, senza davvero alzare troppo la voce o dare tempo all'altro di rispondere alla prima domanda. Non poteva permettersi di urlare, non erano più in strada, ma non erano nemmeno allo stadio. Detto questo, la prima cosa che fece fu allungarsi e acchiappare la tracolla della borsa, dandogli un bello strattone nel tentativo di riprendersi il suo lavoro. Poteva sopportare tutto, ma non faticose ore di diplomazia e documenti andare perdute per colpa di... un ladro?
Boh, non sapeva come chiamare Masao Suzuki in quel momento.
Non aveva detto che dovevano parlare? Bene, avevano parlato.
E ora?

se ogni scelta crea ciò che siamo,
che faremo della mela attaccata al ramo?

Castiel Leroy

Se quello fosse stato un film non avrebbe avuto un lieto fine.
O sarebbe stato un nauseante film drammatico, una di quelle serie televisiva strappalacrime, dove i due personaggi che si sono incontrati nel primo episodio finalmente si riuniscono con una scena struggente che culmina in un abbraccio sincero; una scena che avrebbe fatto contorcere lo stomaco alle fangirls e piangere lacrime amare quando infine l'angelo si sarebbe seduto al fianco del suo a lungo perso amico stringendogli con complicità un'ala attorno alle spalle. Ma quello non era un film.
E Masao aveva scelto le parole sbagliate.
Castiel non le sopportava, le persone che si piangevano addosso.
O meglio, non sopportava le persone che ti abbaiavano contro e poi si piangevano addosso. Perché gli ricordavano Aki.
Gli ricordavano quello stupido sé stesso che si faceva fregare dagli occhi tristi di chi diceva "ma anche io ci sto male e tu non capisci" immediatamente dopo averti piantato un coltello nel cuore.
A Castiel quel comportamento in cui uno si faceva passare per la vittima non piaceva. Indipendentemente da quanto fosse vero.
Con Akihiko era stato anche indulgente, perché lo aveva amato.
Ma ora aveva chiuso con le relazioni tossiche. Di qualunque tipo.

"Quindi volevo chiederti... Se ti va di fare un film."

«No.»
La verità fuoriuscì dalle sue labbra con una brutalità disarmante.
No. Non gli andava di fare nessun film. Era nauseato.
Stava odiando ogni singolo secondo di quella rimpatriata.
Gli bruciavano gli occhi e sentiva la sua fermezza vacillare come una barchetta di carta in mezzo al mare in tempesta. Nemmeno lui sapeva perché si sentisse così. Così... male. Credeva di essere ad un passo dal mettersi a piangere. Non gli interessava di tutte le storyline in comune, del serial-killer, dei sogni e del sangue; a quanto pareva l'ex-salaryman non era nemmeno venuto lì perché ce l'aveva con lui, ma perché ce l'aveva con suo cugino per una storia d'amore finita male. Non era niente più che la fantomatica ruota di scorta su cui sfogare le proprie frustrazioni.
«Io e te non abbiamo più niente da dirci.»

Castiel aprì di nuovo le ali, in tutta la loro solenne ampiezza.
Masao avrebbe potuto vederne la lugubre ombra proiettata dalla luce notturna. Le piume più esterne parevano le sagome di affilati coltelli. Più che un angelo, sembrava uno spaventoso gargoyle, gli occhi fiammeggianti e i piedi piantati per bene sul tetto. Dire che fosse inviperito era poco.
Se ne sarebbe potuto andare, ma non lo fece. Non lo fece perché sarebbe stato controproducente, e adesso quello arrabbiato era lui. Un movimento solo e Castiel abbandonò alle proprie spalle la tracolla contenente il suo computer e la camicia che si era legato in vita. «In piedi. – sbraitò, come se stesse dando un ordine al suo cane. – In piedi, ho detto!» Mosse un passo in avanti e agguantò il colletto della camicia altrui, strattonandolo indietro con furia, con lo scopo di far finire a terra il biondo. Se ci fosse riuscito, avrebbe forse esitato un secondo, prima di trasformarsi nel suo personale boia a basso costo e chinarsi per schiantare la giuntura dell'ala destra a meno di otto centimetri dal suo viso, abbastanza forte da crepare le tegole del tetto.
In quel momento, Castiel Leroy aveva cessato di esistere. Ma non c'era nemmeno Seraphine, la tanto adorata seconda identità che l'ex-idol amava indossare per fare la vigilantes fra i cieli, c'era una creatura venuta fuori da un miscuglio di delusione ed amarezza.
Ci mise qualche istante a rendersi conto di cosa stava facendo, e quando se ne accorse si sentì travolgere dalla di vergogna.
Era davvero così, allora? Un violento represso, o che altro?
Da iniettati di sangue quali erano, i suoi occhi stanchi tornarono a riflettere un barlume di violacea lucidità.
«Io... ti ringrazio per avermi salvato. Ma non posso essere la tua ruota di scorta, Masao. – disse, senza minimamente allentare la presa ferrea sul colletto della camicia altrui. – Se sfoghi le tue frustrazioni sugli altri l'unica cosa che puoi pretendere è che gli altri sfoghino le loro su di te.» Non si scusò, perché sentiva di non avere nessuna colpa. Pronunciate quelle parole, ritrasse l'ala, lo lasciò andare e si rialzò in piedi. Indietreggiò, afferrò di nuovo la tracolla contenente il suo computer, e non gli rivolse nient'altro più che un lieve cenno. Di saluto, di addio, non era dato saperlo.
Si lanciò giù dal tetto e l'attimo dopo stava già sfrecciando in cielo diretto verso chissà dove. Castiel era quel tipo di persona capace di dare tutto sé stesso per le persone che amava, ma pretendeva altrettanto. Quell'incontro lo aveva confuso: era davvero grato che Masao gli avesse salvato la vita quel giorno, era grato di essere vivo perché amava vivere e sentirsi parte del mondo, ma non poté far altro che chiedersi se - nel farlo - non avesse finito per rovinarne altrettante. Castiel, forse, non era la persona adatta a salvare lui e la cosa migliore che poteva fare al momento era lasciarlo lì a riflettere sulle sue scelte. In pace.

se ogni scelta crea ciò che siamo,
che faremo della mela attaccata al ramo?